La Corte Superiore del Massachusetts si è espressa molto chiaramente sul fine vita, negando l’esistenza di un diritto al suicidio assistito, leggiamo in un articolo di Life News. Le motivazioni con cui la Corte ha spiegato l’inconsistenza di tale diritto, possono aiutare anche noi (che sentiamo parlare in continuazione di “aiutare a morire con dignità”) a riflettere sul tema dell’eutanasia, chiedendoci seriamente se questa garantisca o meno una morte libera e dignitosa, come affermano i suoi sostenitori.
Anzitutto, viene rilevata una notevole difficoltà nel verificare sia “mentalmente competente” o meno. Come affermano gli esperti, infatti, «molti pazienti di fronte a una diagnosi di malattia terminale sono depressi» e tale forte abbattimento emotivo, causato dal constatare l’approssimarsi della morte o dall’apprendere che una grave malattia è in fase degenerativa, può influire fortemente nella scelta fra la MAID (Assistenza medica a morire) e le cure palliative.
«In una situazione del genere vi è un grande rischio che la rabbia temporanea, la depressione, un fraintendimento della propria prognosi, l'ignoranza delle alternative, le considerazioni finanziarie, la pressione sui membri della famiglia […] possano avere un impatto sulla decisione», specialmente nel caso di difficoltà economiche nel sostenere i costi delle cure.
Quanto affermato fin ora è sufficiente a far crollare l’equazione (propinata a tutte le ore dai media) secondo cui “eutanasia è uguale a libertà”. E non è tutto.
Nei casi in cui è l’aspirante suicida stesso a indurre la propria morte, avviene di frequente che esso sia solo o circondato da persone che sostengono quell’opzione, il ché limita ulteriormente la libertà di quest’ultimo nella scelta di restare in vita.
Inoltre, il suicidio assistito spesso viene giustificato da un’aspettativa di vita inferiore a sei mesi, ma una tale previsione potrebbe facilmente essere approssimativa. Solo entro le due o tre settimane dal decesso si può effettuare una previsione più precisa (seppur non totalmente).
Infine, mentre le cure palliative e le varie forme di aiuto alla vita si effettuano in ambienti controllati, spesso il suicidio assistito viene praticato senza una adeguata supervisione medica e con un maggiore rischio di abusi.
Dal canto nostro, noi di Pro Vita & Famiglia condividiamo pienamente le considerazioni della dottoressa Silvana De Mari, che, su La Verità, ha affermato: «Il malato va consolato, non ucciso, perché ogni sofferenza può essere lenita se condivisa con qualcuno disposto a farsene carico. Invece il suicidio assistito è la scorciatoia per rimanere indifferenti al bisogno altrui. Anziché curare, ci limitiamo a fornire il veleno».
di Luca Scalise