Non siamo macchine bisognose di un meccanico che le aggiusti quando si guastano. Siamo esseri umani, uomini e donne bisognosi di un medico che ci curi quando ci ammaliamo. La cura, quindi, non è fatta solo di terapie, farmaci o interventi, ma anche di assistenza, attenzioni e parole che solo il rapporto con gli altri esseri umani ci può fornire.
Non siamo solo corpi, abbiamo un’umanità che si nutre essenzialmente di relazioni e che soffre in loro assenza, come quando si digiuna. E nella sofferenza del corpo, oltre alle dovute cure per il fisico, questa necessità delle relazioni umane si fa sentire sempre di più.
Su Tempi leggiamo la lettera di Elisabetta Veronese, infermiera e madre di famiglia, in risposta all’invito della scuola del figlio a scrivere un “Diario dei giorni difficili”, che racconta la sua esperienza nelle corsie d’ospedale in questi giorni di emergenza Coronavirus.
«Giungono soli, hanno dato un veloce saluto ai propri cari prima di salire sull’ambulanza; per qualcuno quel saluto è un arrivederci, non si sa a quando, per altri è un addio. […] Ero pronta ad accompagnare una persona e la sua famiglia nella paura della malattia, nel dolore, nella sofferenza del fiato che non viene, del respiro che manca; anche pronta a sentire la morte, a vederle stringere la mano e portar via pian piano una creatura, ma non sono pronta a questa solitudine. […] Ogni volta che arriva qualcuno voglio trovare il coraggio di accoglierlo senza fretta perché non so quale peso avrà quell’accoglienza; potrebbe essere l’ultimo gesto di umanità di cui lui ha ricordo. […] Di me i pazienti non vedono che gli occhi, dietro la visiera, e mi chiedo se possano bastare per trasmettere quell’umanità che profuma di speranza».
Ringraziamo, dunque, i medici che con il loro eroico impegno si prendono cura dei sofferenti e ricordiamoci sempre che la migliore risposta al dolore umano è e resta sempre e solo una: l’amore.
di Luca Scalise