Non manca molto al 25 ottobre, data per la quale la capigruppo di Montecitorio ha deciso di calendarizzare la proposta di legge sul suicidio assistito, eppure non sono pochi gli esempi che dimostrano come l’eutanasia non serva a porre fine alla sofferenza del malato, ma solo alla sua vita. Un esempio fra tutti, quello della dottoressa Sylvie Menard, ricercatrice oncologica ed ex allieva di Umberto Veronesi, fino a pochi anni fa favorevole all’eutanasia (aveva persino redatto il testamento biologico) e oggi, dopo aver scoperto di avere un cancro inguaribile al midollo osseo, testimone importante contro la “dolce morte” e la mentalità che si cela dietro di essa. Pro Vita & Famiglia l’ha intervistata.
Dottoressa, Lei è ricercatrice oncologica ed ex allieva del prof. Veronesi, fino a pochi anni fa era favorevole all’eutanasia e aveva redatto un testamento biologico, oggi la pensa diversamente. Cosa le ha fatto cambiare idea?
«La malattia. Quando si è sani e giovani, si pensa che il giorno in cui non si sarà più perfettamente sani non si avrà più voglia di vivere e invece, poi, quando ci si ammala ci si rende conto che non è così. Quando la morte si avvicina uno si innamora della vita ed è pronto a fare qualsiasi cosa, pur di continuare a vivere. Non è vero che se la mente e il corpo non funzionano più tanto bene, non vale più la pena di vivere, altrimenti tutti gli anziani chiederebbero di morire. Eppure, se c’è qualcuno attaccato alla vita, sono proprio le persone anziane che si sottopongono spesso a visite di controllo e sono puntuali e precise nel prendere le loro medicine, pur di prolungare i loro giorni il più possibile».
Il prossimo 25 ottobre, alla Camera, arriva la proposta di legge sul suicidio assistito che non prevede nemmeno l’obiezione di coscienza per i medici. Che ne pensa?
«Penso che a volte si propongono delle leggi senza pensare davvero se e come possono essere applicate. Pensiamo a quello che succede con l’aborto: alcuni medici che accettano di praticare aborti finiscono per fare solo questo. Così diventa proprio un mestiere, è davvero angoscioso. Pensare, infatti di aver studiato per 6 anni medicina per ritrovarsi a praticare unicamente aborti per tutta la vita è davvero avvilente. Questo vale anche per la legge sull’eutanasia se si impone ai medici di non potersi rifiutare. Costringere qualcuno ad ammazzare un’altra persona è qualcosa di terribile. Arrogarsi il diritto di costringere i medici a fare qualcosa contro la loro coscienza è gravissimo. Sono gravissime anche le conseguenze per quanto riguarda i pazienti, che rischiano di non ricevere una terapia adeguata perché c’è solo l’alternativa dell’eutanasia. Inoltre con la legge sull’eutanasia rischiamo una sorta di “scivolamento” graduale verso il baratro, come accade in altri paesi: prima l’eutanasia verrà praticata ai pazienti in condizioni estreme, per sofferenza e prospettive di vita, ma poi accadrà che si estenderà a quelli che non hanno più speranza di vivere, come accade in Svizzera, infine anche alle persone anziane che hanno perso la voglia di vivere, spinti dalla solitudine e dalla tristezza. Si arriva facilmente alla degenerazione, invece la vita è una cosa assolutamente meravigliosa e uno se ne accorge soprattutto quando è malato e sta per perderla».
Il cardinale Bassetti ultimamente ha detto “non vi è espressione di compassione nell’aiutare a morire. Ma il prevalere di una concezione antropologica e nichilista in cui non trovano più spazio né la speranza né le relazioni interpersonali”. È d’accordo?
«Ciò che è incomprensibile è come una legge per pochissimi casi specifici deve essere valida in generale. Io lo avverto come un disastro perché rischia di diventare quasi un obbligo per non pesare sulla famiglia e la società. Mia madre che si è spenta all’età di 96 anni, ad un certo punto non aveva più voglia di vivere, ma non ha chiesto di morire, si è spenta piano piano da sola, si è addormentata tranquillamente, questa è la dolce morte: la dolce morte non è farsi iniettare un veleno nel braccio. Io posso capire chi soffre molto, anch’io ho sofferto tanto per la malattia, ho preso degli oppiacei e so che significa, ma la ricerca va avanti sugli antidolorifici, si arriverà sicuramente a togliere il dolore senza togliere la coscienza, in modo che il malato possa essere tranquillo nel suo letto, senza essere stordito dagli antidolorifici. Io sono per la sedazione nel momento del fine vita, quando il paziente non ce la fa più e sta per morire. La sedazione è una specie di anestesia, è una cosa diversa dall’eutanasia, non ha mai fatto morire nessuno: il paziente muore per la sua malattia. E’ una morte naturale. Peraltro avevo letto una bozza di legge sull’eutanasia in cui si parlava di malattie con probabilità di sopravvivenza di meno di 12-18 mesi. Ma chi può prevedere il decorso di una malattia? È difficile prevedere persino il decorso della malattia a distanza di 1-2 mesi. Ho visto pazienti a cui era stato dato appena un anno di vita tornare dopo 10 anni. Inoltre, non ci si può basare solo sul dolore: io stessa ho avuto una patologia particolarmente dolorosa, ma sapevo che si trattava di qualcosa da cui uno poi può venir fuori e guai se avessi chiesto l’iniezione letale. Mi hanno dato degli oppiacei per un po’ di tempo, insieme al metadone, anche se si tratta di sostanze che ti fanno vivere in uno stato di coscienza alterata, però, finita la malattia, sono ancora qua».