Ai genitori di Indi Gregory è stata negato il diritto a una “seconda opinione”: quella di un’équipe medica diversa da quella curante, che possa garantire un accompagnamento dignitoso, anche in uno stato terminale. Nel caso di Indi, comunque, non vi è stato alcun accanimento terapeutico. A ribadirlo, a colloquio con Pro Vita & Famiglia, è il professor Giuseppe Noia, presidente dell’Associazione Italiana Ginecologi e Ostetrici Cattolici (Aigoc), neonatologo del Policlinico Gemelli, dove alcuni anni fa, ha attivato il primo hospice perinatale, per la cura e l’accompagnamento di piccoli pazienti affetti da malattie gravissime, in alcuni casi rare e, molto spesso, inguaribili. Una bambina come Indi – di cui oggi si celebrano i funerali – se fosse stata accolta dall’équipe del professor Noia avrebbe avuto una chance in più, così come l’avrebbe avuta all’ospedale pediatrico Bambino Gesù.
Professor Noia, in base alla sua esperienza, quanto possono sopravvivere i bambini nelle condizioni di Indi?
«La natura della sua malattia è purtroppo prognosticamente negativa. Quasi tutti i bambini non ce la fanno e si caratterizzano poi per una problematica che, per la condizione naturale di questa malattia, porta man mano a una serie di sofferenze. È vero, negli Usa una bambina con depressione mitocondriale è arrivata a nove anni ma il suo caso va preso con il beneficio d’inventario, perché dal punto di vista della produzione mitocondriale poi ci sono delle differenziazioni. È altrettanto vero che, come abbiamo spiegato noi dell’hospice perinatale del Gemelli, una terminalità che dura molti anni può essere un’eventualità concreta. Poi, sempre nell’ambito di questa definizione, la terminalità può essere indotta o dalla medicina difensiva o dal non conoscere bene le situazioni, o ancora dal fatto che si pensa che non si possa fare nulla, quando, invece, si possono fare tantissime cose».
Qualche esempio di cosa si può fare?
«Ci sono casi in cui il tessuto cerebrale si forma ma va a contatto con il liquido amniotico oppure non si forma affatto, per cui il bambino morirà. Tuttavia, molte coppie, dopo una diagnosi di bambino terminale con anencefalia, hanno scelto di andare avanti andare avanti, perché separano la malattia dal concetto e dalla realtà del figlio. Al contrario, unificare la malattia col figlio è un errore, con il quale si tenta di giustificare il cosiddetto “aborto terapeutico”, che, più correttamente, andrebbe indicato come “aborto eugenetico”. C’è però un risvolto interessante: otto anni fa è stato pubblicato uno studio di valutazione della sofferenza psicologica in circa 170 mamme e papà che erano stati suddivisi in due categorie: quelli che, pur sapendo che il loro bambino anencefalico non sarebbe sopravvissuto, hanno voluto tenerlo in vita, e quelli che, invece, hanno scelto di fare subito l’interruzione di gravidanza. Ebbene, nelle tre scale di valutazione che hanno fatto per questo studio, si può notare che, in termini statistici, la sofferenza psicologica e la depressione erano superiori in chi non accompagnava il bambino terminale, rispetto a chi, invece, lo accompagnava».
Il Bambino Gesù di Roma si era offerto per ricoverare Indi: che tipo di cure si possono dare a bambini terminali?
«Le linee che abbiamo dato con il nostro hospice perinatale prevedono un documento condiviso con i bioeticisti clinici. Si è pronunciato su questo anche il professor Antonio Spagnolo. Con il professor Dario Sacchini e la dottoressa Barbara Corsano e con tutti i membri del team, affrontiamo i vari problemi delle cosiddette “incompatibilità” con la vita extrauterina. Servono criteri condivisi e ce li abbiamo, perché tre anni fa il Comitato Nazionale di Bioetica ha messo in evidenza quali siano le situazioni in cui bisogna astenersi da trattamenti inutili e sproporzionati, ovvero l’accanimento terapeutico. L’iter metodologico prevede quindi la possibilità di una “second opinion” clinica di cui i genitori vanno messi al corrente. Detto ciò, per onestà intellettuale, l’équipe che ha curato Indi aveva lavorato in maniera molto precisa e professionale, fino quando si è arrivati al tema della libertà di scelta di cura, per cui ogni paziente (o i suoi genitori nel caso di un minore), purché informato, ha diritto a scegliere i trattamenti medici cui sottoporsi. Un genitore, quindi, deve poter eventualmente chiedere di cambiare l’équipe medica. Nessuno, nemmeno al Bambino Gesù aveva mai parlato di terapie che salvano la vita – anche questo va detto con molta verità e trasparenza – tuttavia la scelta dei genitori non dovrebbe mai essere sottoposta alla decisione di un tribunale ma andrebbe data loro la libertà di scegliere un’altra opzione».
Dov’è quindi il confine tra eutanasia e accanimento terapeutico in questi casi?
«Nel caso di Indi non c’era nessun accanimento terapeutico. Si tratta di non esautorare i genitori dalla decisione per il proprio figlio, cosa che, con Indi è avvenuta. Anche nel caso dei bambini da noi curati, non c’è alcun accanimento. Il vero “miglior interesse” per il bambino è garantire ai genitori di poter scegliere dei medici in grado di prospettare delle opinioni differenti dalla propria équipe. L’ospedale dove era ricoverata Indi aveva fatto bene all’80%, sbagliando però nel non assecondare la “seconda opinione”, quella, cioè, dell’ospedale di un Paese, di cui la bambina era stata anche proclamata cittadina. Nel caso del nostro hospice perinatale, noi cerchiamo di illustrare ai genitori le forme di accanimento terapeutico che il bambino potrebbe rischiare e che posso derivare proprio dalla famiglia che volesse sperare di salvare la vita del proprio figli. C’è quindi un processo di maturazione decisionale della famiglia che nasce proprio dal fatto che la famiglia stessa non si sente esclusa. Il documento condiviso è una perla dell’hospice perinatale del Gemelli, perché in questi otto anni in cui siamo ufficializzati (ma anche in precedenza), non abbiamo avuto mai contenziosi, anzi, le famiglie hanno detto di avere trovato non solo la risposta scientifica e umana che si aspettavano ma anche di aver trovato una nuova famiglia. Dico tutto questo non per trionfalismo ma per mostrare come la gente, se opportunamente supportata, capisce, accetta e condivide le decisioni dei medici».