L’art. 9 della L. 194 prevede il diritto all’obiezione di coscienza quando stabilisce che «il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie non è tenuto a prendere parte alle procedure di cui agli articoli 5 e 7 ed agli interventi per l’interruzione della gravidanza quando sollevi obiezione di coscienza, con preventiva dichiarazione». Naturalmente l’esenzione vale solo per le «attività specificamente e necessariamente dirette all’interruzione della gravidanza, e non dall’assistenza antecedente e conseguente all’intervento» (3° comma); inoltre gli obiettori non si possono esimere dal prestare assistenza «quando, data la particolarità delle circostanze, il loro personale intervento è indispensabile per salvare la vita della donna in imminente pericolo» (ultimo comma).
In merito alla libertà di coscienza va detto che, storicamente, l’ordinamento italiano ha riconosciuto il diritto all’obiezione riguardo a tre ipotesi: il servizio militare di leva, la partecipazione a pratiche abortive (sia dirette, come nella 194, sia indirette, come nella legge 40/2004), la sperimentazione sugli animali. Con l’abolizione della leva obbligatoria la prima ipotesi è venuta meno, ma ai fini della presente analisi è importante evidenziare la differenza sostanziale tra l’obiezione al servizio militare e quella sanitaria. La prima è sempre stata concessa in termini più restrittivi: era subordinata alla prestazione del servizio civile sostitutivo e doveva essere giustificata da specifiche motivazioni. Invece il rifiuto di partecipare a pratiche abortive diviene giuridicamente operativo con il rilascio di una semplice dichiarazione senza che operi, com’è giusto che sia, nessuna imposizione alternativa.
Questa diversità di trattamento sembra da ricondurre al diverso peso dei rispettivi fondamenti costituzionali: con l’obiezione di coscienza al servizio militare il cittadino non contesta il valore della difesa dello Stato, ma si oppone alle implicazioni che quel servizio presenta e perciò si presta a un servizio alternativo non violento; con l’obiezione all’aborto, invece, il sanitario nega la natura valoriale della stessa essenza dell’atto abortivo e perciò vi si oppone radicalmente. La differenza tra le due posizioni corrisponde a una distinzione più generale: quella tra l’uccisione nel corso di un conflitto armato e la soppressione di una vita inerme e innocente.
Quella della guerra, a prescindere dalla giustizia delle motivazioni, è una dinamica che può rendere lecita, se non altro perché inevitabile, l’uccisione di un essere umano; ma dare la morte, nel silenzio e nella “tranquillità” di una sala operatoria (o, secondo le ultime “conquiste”, nell’isolamento di casa propria), a un essere umano che non ha altra “colpa” se non quella di essere venuto al mondo, è qualcosa di totalmente incomparabile sul piano materiale e morale. Ecco la differenza irriducibile tra le due fattispecie: la guerra ammette l’eccezione al principio del “non uccidere”, l’aborto no.
Perciò, com’è stato giustamente osservato, con questa distinzione «il legislatore sembra tradire la consapevolezza che il rifiuto di praticare l’aborto ha in sé la rilevanza giuridica di conformità all’ordinamento costituzionale» (M. Zanchetti, La legge sull’interruzione della gravidanza, Padova 1992, p. 91); una conformità talmente profonda da non poter giustificare la benché minima “reazione” da parte dello Stato, checché ne dicano femministe e redicali…
Vincenzo Gubitosi