La Giornata Nazionale degli Stati Vegetativi celebra oggi la sua XI edizione. Il tema è più attuale che mai, coinvolge migliaia di famiglie italiane, quasi sempre lasciate sole da un sistema sanitario nazionale inefficiente, che sfavorisce palesemente i soggetti più fragili.
A prenderne atto è il presidente di Pro Vita & Famiglia, Toni Brandi, che ha dichiarato: «La pandemia in corso non distolga l’attenzione dal coma, dalle persone in stato vegetativo e con disordini di coscienza. Sono migliaia in tutta Italia e i loro bisogni devono rimanere rilevanti per uno Stato che voglia dire civile».
Da parte sua, il vicepresidente di Pro Vita & Famiglia, Jacopo Coghe, ha lanciato il suo appello al nuovo governo, affinché «non lasci sole le famiglie che sono aggravate da queste tragedie». I pazienti in stato vegetativo, «resi invisibili dal silenzio mediatico, hanno bisogno di strutture adatte e non di isolamento o di leggi sul fine vita che si lavano le mani del problema chiamando un omicidio “dolce morte”». Coghe ha quindi ricordato che di un soggetto in stato vegetativo «nessuno è in grado di sapere quale sarà la sua reale condizione e la sua reale volontà quando eventualmente un giorno si troverà in stato vegetativo, a di là della retorica che si fa sul testamento biologico».
Brandi e Coghe sollecitano infine «risposte rispetto ai bisogni sempre più emergenti di queste persone fragili. Non sono consentiti ritardi operativi, perché questi malati e i loro familiari non hanno tempo da perdere».
La Giornata Nazionale degli Stati Vegetativi fu istituita alla fine del 2010, con decreto del Ministero della Sanità, durante il governo Berlusconi IV, l’ultimo esecutivo italiano a mostrare una certa attenzione al tema. La data scelta fu emblematica: due anni prima, il 9 febbraio 2009, al termine di una lunghissima e drammatica vicenda giudiziaria era morta Eluana Englaro (1970-2009). L’allora ministro del Welfare e della Salute, Maurizio Sacconi, fu in prima linea, appoggiato dal premier Silvio Berlusconi, nel salvare dalla morte Eluana. Sacconi emanò un atto d’indirizzo che vietava a tutte le strutture pubbliche e convenzionate di sospendere idratazione e alimentazione a qualunque paziente, pena l’esclusione dal sistema sanitario nazionale. La giovane donna, però, fu fatta trasferire dal padre Beppino Englaro, presso una casa di cura friulana non convenzionata dove trascorse i suoi ultimi giorni di vita.
Sulla vicenda di Eluana Englaro, tuttavia, ancora allignano molti misteri. In primo luogo, non si è mai avuta conferma della sua volontà di morire, in caso di sopravvenuta disabilità grave, come quella che effettivamente ebbe in sorte. Inoltre, secondo testimonianze ritenute credibili, la ragazza, pur impossibilitata a comunicare, era cosciente di quello che le avveniva intorno e manifestava reazioni emotivi angosciate quando il padre parlava con i medici della sua volontà di lasciarla morire.
Ance il caso di Salvatore Crisafulli (1965-2013) è emblematico delle analisi approssimative di molti medici. Andato in coma, a seguito di un incidente stradale nel 2003, l’uomo rimase “locked-in” per almeno un paio d’anni. In quelle condizioni, che furono inquadrate dai sanitari come “stato vegetativo”), l’uomo era però in grado di comprendere le domande che gli venivano rivolte e di percepire gli stimoli esterni. Quando poi, per la prima volta aprì gli occhi, Crisafulli iniziò a comunicare con gli occhi e confermò il suo stato di “coma vigile” precedente. Fu questo cambiamento ad indurre il fratello Pietro Crisafulli ad abbandonare il precedente proposito di chiedere l’eutanasia per Salvatore.
Cosa si intende allora per “stato vegetativo”? Il termine fu coniato all’inizio degli anni ’90, ad indicare una condizione clinica in cui il paziente conservava uno stato di vigilanza, nel quadro di una definitiva compromissione della consapevolezza di sé e dell’ambiente circostante. Nel corso degli anni, l’esperienza clinica maturata sul campo, ha ridimensionato i contorni generali della patologia: la condizione non è più definita “permanente” o irreversibile ma, soprattutto la coscienza, nella maggior parte dei casi, rimane intatta. In altre parole, cioè, il paziente ha capacità di ascolto e percepisce quanto avviene vicino a lui ma non è in grado di comunicare.
Il Comitato Nazionale di Bioetica, in un documento del 2005, distingue lo stato vegetativo da qualunque tipo di coma (dove manca l’alternanza veglia-sonno) e, soprattutto, dalle malattie terminali. Il paziente in stato vegetativo persistente si trova in «un apparente stato di vigilanza senza coscienza, con occhi aperti, frequenti movimenti afinalistici di masticazione, attività motoria degli arti limitata a riflessi di retrazione agli stimoli nocicettivi senza movimenti finalistici», si legge nella definizione del CNB.
Questi pazienti spesso «sorridono senza apparente motivo», ruotano gli occhi ma in genere lo sguardo è perso nel vuoto. La loro vocalizzazione, quando c’è, si sostanzia in «suoni incomprensibili». Si manifestano «spasticità, contratture, incontinenza urinaria e fecale». Le funzioni cardio-circolatoria, respiratoria e gastro-intestinale sono in genere regolari, sebbene sia necessario nutrirlo tramite sondino naso-gastrico, essendo compromesse le capacità di masticazione e di deglutizione.
Dieci anni fa esatti, in occasione della prima Giornata degli Stati Vegetativi, Gian Luigi Gigli e Massimo Gandolfini, in un articolo pubblicato sulla rivista di Scienza & Vita, tracciarono la distinzione tra coma, stato vegetativo (SV) e stato di minima coscienza (SMC). Mentre nel coma, spiegavano i due neurologi, il paziente non è né cosciente, né permeabile, agli stimoli esterni, nello SV, egli mantiene gli occhi aperti e l’alternanza veglia/sonno, rimanendo però impossibilitato a comunicare con l’esterno. Nello SMC, invece, il paziente è in grado di esprimere una limitata consapevolezza di sé e un minimo di risposte verbali o posturali agli stimoli esterni. Questo stato può anche rappresentare un’evoluzione più o meno temporanea in positivo dello SV.
Né i pazienti in SV, né quelli in SMC sono malati terminali ed entrambe le categorie possono essere accudite a domicilio. Necessitano mediamente quattro ore al giorno di cure e vicinanza stretta da parte dei parenti o dei caregiver. La loro assistenza è quindi relativamente poco dispendiosa per il sistema sanitario nazionale, il quale, però, è tenuto a non abbassare assolutamente la guardia nei loro confronti e nei confronti delle loro famiglie.