Lo rileva un’indagine effettuata dall’Istituto Neuroilogico di Milano. Il 34% dei familiari è costretto a rinunciare al lavoro, in maniera temporanea o definitiva, per accudire il congiunto. Anche un dato positivo: il 14% dei pazienti, in due anni, passa da stato vegetativo a minima coscienza.
Sempre più preoccupante la situazione per le famiglie dei pazienti italiani in stato vegetativo e di minima coscienza: nel 32% dei casi la presenza di un congiunto con disordine della coscienza è causa di grave difficoltà economica, ulteriormente aggravata dalla crisi, mentre il 34% dei familiari è costretto a rinunciare al lavoro, in maniera temporanea o definitiva, per accudirlo. E’ quanto emerge da una ricerca effettuata dall’Istituto Neurologico “Carlo Besta” che ha preso in considerazione 275 pazienti e 216 familiari.
L’indagine, presentata all’interno di un workshop internazionale organizzato dall’Istituto Neurologico Carlo Besta, finanziata dal Ministero della Salute e coordinata dalla Regione Emilia-Romagna, è l’aggiornamento dei risultati rilevati in un precedente studio dell’Istituto del 2010, che analizzava la condizione di 602 pazienti e di 487 familiari sul territorio nazionale. Viene evidenziato anche che le condizioni e le capacità dei pazienti, diversamente da quanto si pensava sinora, possono evolvere clinicamente nel tempo: infatti, il 14% di loro, in un arco di tempo di due anni, è passato dallo stato vegetativo a quello di minima coscienza o dalla minima coscienza alla gravissima disabilità.
Rispetto alle condizioni di salute dei pazienti, in maggioranza uomini con età media di 55 anni, lo studio riscontra che l’alta mortalità caratteristica del primo anno di malattia, già nota in letteratura medica, prosegue sino al terzo anno dall’evento acuto. Dopo questo termine, il paziente sembra stabilizzarsi e, escludendo l’insorgenza di eventi imprevisti, tende a sopravvivere a lungo.
Analizzando, invece, la situazione dei familiari, si rileva che nonostante il passare del tempo, a distanza di due anni il carico assistenziale giornaliero si mantiene molto elevato, contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare da una condizione di malattia che tende a stabilizzarsi. La percentuale dei familiari che passa più di tre ore al giorno con il malato nell’arco dei due anni è salita dal 55% al 59,7%.
Emerge che, oltre al carico assistenziale e a quello economico, rimangono molto alte anche le difficoltà legate al carico emotivo dei familiari, sebbene il passare del tempo sembri ridurre l’entità dei sintomi depressivi. La malattia ha un riflesso negativo anche sui rapporti interni alla famiglia: infatti più passa il tempo dall’evento acuto meno i caregiver sono soddisfatti delle loro relazioni familiari e talora si sentono meno capiti.
“La nostra ricerca evidenzia – ha spiegato Matilde Leonardi, coordinatrice dello studio e responsabile della Struttura di neurologia, salute pubblica e disabilità dell’Istituto Neurologico Besta – che le capacità residue dei pazienti e non la diagnosi sono indicativi per comprendere le loro prospettive e che la riabilitazione non deve essere interrotta per dogma o per spending review. Infatti, quello che nel funzionamento può non essere evidente nei primi mesi, anche perché messo in secondo piano dai problemi di sopravvivenza, può avere tempo di esprimersi negli anni successivi per la plasticità del sistema nervoso. Per queste ragioni, la persona e la famiglia devono poter contare su operatori e servizi esperti e – ha concluso – competenti durante tutta la malattia e non solo nelle prime fasi”.
Fonte: Quotidiano Sanità