A poche ore dalla sua morte, la commozione e la rabbia rendono più complesso di quanto già sarebbe ripercorrere la vicenda di Indi Gregory, la bambina inglese di otto mesi che, nel suo (molto supposto) “miglior interesse” è stata di fatto uccisa per eutanasia omissiva. Per quanto difficile, il riepilogo della vicenda è comunque un esercizio da farsi, anche per capirne meglio le pieghe surreali e disumane. Iniziano, quindi, dal principio.
Indi Gregory - figlia di Dean Gregory, 37 anni e Claire Staniforth di 35, coppia proveniente da Ilkeston, cittadina di 38.000 abitanti della contea del Derbyshire - nasce il 24 febbraio 2023 a Nottingham. Sin dalla nascita appare chiara la sua condizione, purtroppo sfortunata. La bambina risulta infatti affetta da una malattia genetica degenerativa estremamente rara, nota come sindrome da deplezione del Dna mitocondriale. A causa di tale sua condizione – che, in sostanza, impedisce alle cellule di produrre energia sufficiente per sostenere il corpo - fin dalla sua nascita, Indi trascorre la sua breve vita come paziente nell’unità di terapia intensiva pediatrica del Queen’s Medical Center di Nottingham.
Nessuno, all’inizio, può sospettare che proprio quell’ospedale che la accoglie e la cura diventerà la struttura che chiederà – e purtroppo otterrà, come noto – la morte di Indi Gregory. A circa sei mesi dalla nascita, i medici che la seguono si convincono che la bambina, nella condizione in cui si trova (collegata ad un respiratore), stia soffrendo e quindi nel suo “miglior interesse” propongono l’estubazione, pur consapevoli che ciò ne cagionerebbe la morte in breve tempo. La famiglia della piccola non è d’accordo e ne deriva, quindi, un contenzioso; il che è inevitabile, da quelle parti.
Come infatti anche altre tristi esperienze precedenti hanno mostrato, l’ipotesi che genitori e medici non concordino su un piano terapeutico e assistenziale - espressione nella quale è purtroppo ricompresa anche la letale sottrazione dei sostegni vitali – nel Regno Unito non può che concretizzarsi in un modo: il ricorso al tribunale. Che in questo caso vede i medici del Queen’s Medical Center chiedere la possibilità di sospendere quelli che, per Indi, sono i trattamenti vitali. Il primo verdetto dell’Alta Corte arriva il 13 ottobre. Lo pronuncia il giudice Robert Peel e si tratta di un pronunciamento significativo e da tenere a mente, dato che in sostanza verrà sempre confermato successivamente, in quanto né la Corte d’Appello né la Corte europea dei diritti dell'uomo (Cedu), pur investite ripetutamente dai ricorsi della famiglia della piccola, accetteranno di occuparsi dei ricorsi o rivedranno tale verdetto.
Il fatto è doppiamente avvilente dato che dal 13 ottobre alla notte tra il 12 e 13 novembre, quando cioè Indi Gregory ci ha lasciati, di fattori rilevanti ne sono intervenuti diversi. I più rilevanti sono due. Il primo è quello che accade nella tarda serata del 29 ottobre, quando dall’ospedale Bambino Gesù di Roma – con nota del suo presidente, Tiziano Onesti – arriva una nota alla famiglia Gregory nella quale i medici di questo centro d’eccellenza della pediatria a livello internazionale si dicono «pronti ad accogliere e curare vostra figlia», offrendo anche un piano terapeutico ad hoc che ovviamente non include l’eliminazione della piccola paziente; da notare come, assieme a tale disponibilità, arriva anche quella del Governo italiano, che si dice disponibile a sostenere tutte le spese necessarie alle cure di Indi.
Un secondo passaggio significativo avviene lunedì 6 novembre alle 14:15, quando in Italia viene convocato d’urgenza il Consiglio dei ministri. Poco più di 10 minuti dopo un lancio dell’agenzia Ansa dà la notizia: Indi Gregory è cittadina italiana. Conseguentemente, il Console italiano a Manchester, Matteo Corradini, su richiesta dei familiari della bambina, nella sua funzione di giudice tutelare, emette un provvedimento d’urgenza, dichiarando sua la competenza sul caso e autorizzando l’adozione del piano terapeutico proposto dall’ospedale Bambin Gesù di Roma e il trasferimento della minore a Roma. Il Console, in quel frangente, ha altresì nominato un curatore speciale, il dottor Antonio Perno del Bambino Gesù, per gestire le procedure. Il decreto viene comunicato al direttore generale dell’ospedale inglese per favorire una collaborazione, evitando conflitti di giurisdizione: tutto inutile.
Sempre in quei giorni, la sola cosa che la magistratura inglese ha rivisto – in termini ancora più restrittivi, peraltro – è stata la sua stessa disposizione che consentiva a Indi Gregory di morire in casa propria, alla fine negata ordinando che la bambina morisse in un hospice. Questo è stato stabilito dalla Corte d’Appello venerdì scorso, quando l’Italia era ancora attiva a livello legale e istituzionale su almeno due fronti. Il primo è quello della già citata richiesta del giudice tutelare italiano di Indi, ai sensi dell'articolo 9 comma 2 della Convenzione dell'Aia per la protezione dei minori del 1996, che riguarda «competenza, la legge applicabile, il riconoscimento, l’esecuzione e la cooperazione in materia di responsabilità genitoriale e di misure di protezione dei minori».
In secondo luogo, la Presidenza del Consiglio aveva anch’essa attivato una procedura. Nella sua qualità di Autorità centrale, prevista dalla Convenzione dell'Aja, infatti, aveva scritto alla corrispondente autorità britannica e per conoscenza al primo Ministro britannico e al Ministero della giustizia del Regno Unito. Nella lettera, firmata da Giorgia Meloni, si richiamava un altro articolo della Convenzione, il 32 paragrafo 1 lettera b. Esso, appunto, recita che «su richiesta motivata dell’Autorità centrale o di un’altra autorità competente di uno Stato contraente con il quale il minore abbia uno stretto legame, l’Autorità centrale dello Stato contraente in cui il minore ha la sua residenza abituale e in cui si trova» potrà «chiedere all’autorità competente del suo Stato di esaminare l’opportunità di adottare misure volte alla protezione della persona o dei beni del minore».
Purtroppo, come si diceva, è risultato tutto inutile. Anche questi ultimi passaggi. I giudici inglesi, infatti, hanno ritenuto loro stessi fossero nelle migliori condizioni per decidere e valutare correttamente il “miglior interesse della bambina”, senza quindi il bisogno della valutazione di un altro giudice. Gli stessi togati britannici, inoltre, hanno stabilito – forse rischiando anche una sorta di incidente diplomatico – che l’Italia abbia agito «non nello spirito della Convenzione» del 1996.
Indi Gregory, purtroppo lo sappiamo, è stata scortata in un hospice dalla polizia – neanche fosse un pericoloso criminale – e tra il 12 e il 13 novembre, alle 1.45 ora inglese (le 2:45 qui da noi), se n’è andata.
Mentre non se n’è andata, anzi rimane più forte che mai, la rabbia per una storia drammatica e per una vita che poteva essere salvata. Ma non tanto dall’Italia, attenzione, ma dal puro buon senso. Basta quello, infatti, per capire che una bimba malata e inguaribile (ma non incurabile, nessuno lo è!) va accompagnata e aiutata nella sua esistenza, finché possibile. Non certo lasciata morire.