È nuovamente alla ribalta la Ru486, la pillola abortiva pubblicizzata alla stregua di un’aspirina. Dopo segnali preoccupanti in Inghilterra, abbiamo nuovi riscontri anche in Italia. In Umbria, con delibera del 4 dicembre promossa dall’assessore alla sanità Luca Barberini, la Giunta Regionale non solo ha richiesto che in ogni struttura in cui si pratica l’aborto chirurgico si offra anche quello farmacologico, ma ha anche introdotto l’opzione day hospital che rende superfluo il ricovero. La Lombardia ha ben pensato di seguire a ruota con l’imitazione di questo triste esempio (per mezzo di una Giunta di centrodestra, facciamo notare). Insomma stiamo assistendo a una pressione politica “dal basso” che mira a incentivare la diffusione della Ru486, il cui uso, nel nostro Paese, è stato finora marginale.
Sulla pericolosità della Ru486 sono stati versati fiumi d’inchiostro. In Italia anche il Consiglio Superiore di Sanità ha espresso per tre volte parere negativo a riguardo. Possiamo dire, in definitiva, con Eugenia Roccella, che la tanto sbandierata “facilità” dell’aborto farmacologico «riguarda solo l’organizzazione sanitaria: si liberano le camere operatorie, e i medici devono solo fornire le pillole. Tocca poi alla donna gestire la situazione, capire se ci sono complicazioni o eventi avversi, se è necessario correre in ospedale o no, e soprattutto è lei che deve verificare se l’embrione è stato espulso».
Da questo punto di vista assistiamo a un paradosso a dir poco beffardo: lo scopo ultimo – e oggettivo (al di là delle dichiarazioni dei vari soggetti politici) – della pillola abortiva è quello di “privatizzare” il fenomeno dell’aborto e banalizzarlo nascondendolo, dopo che si erano mossi mari e monti per “socializzarlo” e responsabilizzarlo portandolo allo scoperto. E già questa è una prima, vistosa incoerenza degli abortisti 2.0 rispetto alla storia della legalizzazione. Ma soprattutto si era tanto invocata la necessità di ospedalizzare la procedura per ridurre il più possibile l’impatto del trauma psicologico sulle donne – che rimane sempre e comunque – e ora si ammette addirittura il contrario: che sia la donna stessa a sperimentare, in modo crudo e diretto, le conseguenze del proprio atto, fino a visionare l’espulsione dal proprio corpo di quel “grumo di cellule” in cui era già scritto il futuro di un figlio che non tornerà più.
Vincenzo Gubitosi
Fonte: Avvenire