Il Dott. Puccetti ci illustra uno dei (troppi) casi in cui la RU486 si è rivelata letale per la madre, oltre che per il figlio. Uno dei casi di cui nessuno ha mai parlato finora (non è politicamente corretto): siamo i primi a dare la notizia in Italia.
Ho una diapositiva che mostro a lezione con l’elenco dei casi di aborto con la pillola RU486. Di anno in anno i caratteri dello scritto diventano sempre più piccoli: di volta in volta devo aggiungere un altro caso. L’ultima è una donna inglese, aveva 31 anni ed era alla sua quinta gravidanza. Non conosciamo il suo nome, ma sappiamo il suo destino: è morta a causa di un’infezione diffusa dopo avere assunto la pillola dell’aborto “dolce”. Ha fatto quello che le avevano detto: 200 mg di Ru486, poi 800 microgrammi di prostaglandina (misoprostol) inserita in vagina per espellere il bambino e una dose successiva di altri 400 microgrammi. Tutto secondo programma, ma questa volta il programma non è andato come doveva; a morire non è stato solo il figlio non accolto, ma lei stessa. A mettere fine alla vita di questa madre è stata un’infezione letale causata da un germe, il Clostridium Septicum. Già, ancora una volta un’infezione, ancora una volta il germe appartiene alla famiglia dei Clostridi, la stessa del tetano e del botulino. Le avevano prescritto un antibiotico, la doxiciclina, come prevenzione delle infezioni, ma non è servito. Il caso, lo sappiamo solo ora, risale al 2010 quando la giovane donna viene ricoverata al Royal Albert Edward Infirmare di Wigan, una cittadina del Lancashire a metà strada tra Manchester e Liverpool. Da un giorno lamenta dolori addominali e sanguinamento vaginale, un mese prima aveva abortito all’ottava settimana di gestazione con la RU 486. Un’ecografia transvaginale non rileva presenza di tessuto residuale in cavità uterina. Dopo appena 22 ore dall’ingresso in ospedale la donna comincia ad avere crampi alle gambe, dopo poco la gamba inizia a gonfiare, compaiono lividi che arrivano fino alla natica, sono i segni della setticemia incipiente. Anche il cervello comincia a soffrire, la donna diventa confusa e sonnolenta. I medici decidono d’intervenire operando la donna all’addome alla ricerca del focolaio infettivo, ma niente viene notato. Nel frattempo il gonfiore e il sanguinamento si estendono, incidendo la cute alla radice della coscia i medici rilevano il formarsi di una gangrena gassosa in cui i tessuti diventano necrotici, scollati a causa della presenza di gas maleodorante. Dopo appena 28 ore dal ricovero la paziente ha un arresto cardiaco e muore; il dolore alla gamba era comparso solo da 5 ore e mezzo. L’autopsia ha rivelato la presenza di un ascesso uterino nel sito di impianto dell’embrione prima che egli fosse eliminato con la pillola abortiva. Questo il resoconto dei fatti comparso sul numero di luglio del Journal of Obstetrics and Gynaecology. La donna aveva seguito il protocollo standard: la RU486 in ospedale e le prostaglandine a casa, così, per avere più privacy. Gli studi scientifici della questione indicano in modo chiaro un tasso di mortalità, di complicanze, di intensità e prevalenza del dolore nettamente maggiore per le donne che abortiscono con la RU 486, ma quello che interessa agli abortisti ideologici è la sua capacità di rendere l’aborto un fatto privato, un intervento sanitario al pari di tutti gli altri. La RU486 viene descritta come un “aborto spontaneo indotto” (induced miscarriage), come un aborto “più naturale”. Questa è la grande opportunità offerta dall’aborto “pillolato”, celare la verità, quella che ti fa capire che comunque si abortisca non si toglie un dente, si sopprime un figlio.
di Renzo Puccetti