18/01/2020

Se i preti ringraziano Cappato per l’eutanasia…

L’assoluzione di Marco Cappato, decisa alcuni giorni fa dalla Corte d'Assise d'Appello di Milano in ordine al procedimento per la morte di Dj Fabo, ha dato al leader radicale modo di esultare con toni quasi da martire. «È stata lunga e dura e non è certo finita», ha infatti dichiarato, «mi hanno dato dell'assassino, mi hanno paragonato a Caronte. Dicevano che godevo a convincerli a morire per mettermi in mostra.  Calunnie più o meno stupide, più o meno insidiose. Ma a poco a poco tutti hanno capito. E ora mi scrivono anche i preti per ringraziarmi».

Ora, naturalmente è stata per lo più quell’ultima sottolineatura - «e ora mi scrivono anche i preti per ringraziarmi» - a fare notizia, facendo passare Cappato come un amicone di sacerdoti illuminati e, quindi, pro eutanasia. Il che è pure possibile, considerando lo stato bioeticamente confusionale in cui purtroppo, da non da oggi, versano settori significativi del mondo cattolico. Il punto vero però è un altro, anche al di là della dimensione giudiziaria del singolo caso, come può essere quello di  Dj Fabo. Il punto è che l’eutanasia, laicamente parlando, e e resta un omicidio e come tale va condannata.

In altre parole, non serve essere preti e manco credenti – checché ne dica Cappato – per riconoscere la «dolce morte» come un crimine senza scusanti. Per un motivo semplice: chi, ancorché spinto da condizioni critiche se non drammatiche, si toglie la vita (e quindi pure chi coopera affinché ciò avvenga) commette dal punto di vista etico un gesto malvagio, che gli ordinamenti giuridici non puniscono non perché non vogliano, ma perché, per ragioni intuibili persino da un radicale, non possono.

Non per nulla già un pensatore non cristiano come Aristotele – nella sua Etica Nicomachea - apostrofava i suicidi come traditori della polis. Una contrarietà al suicidio netta fu anche quella di un altro gigante del pensiero laico come Immanuel Kant, il quale scrisse: «Chi si toglie la vita […] si priva della sua persona. Ciò è contrario al più alto dei doveri verso se stessi, perché viene soppressa la condizione di tutti gli altri doveri» (Lezioni di etica, 2004). Laicissima era anche Oriana Fallaci, nel condannare l’eutanasia di Stato.  «La parola eutanasia», disse la scrittrice che peraltro sperimentò sulla propria pelle il dolore di una malattia mortale, «è per me una parolaccia. Una bestemmia nonché una bestialità, un masochismo. Io non ci credo alla buona-Morte, alla dolce-Morte, alla Morte-che-Libera-dalle-Sofferenze. La morte è morte è basta».

E ne aveva, Oriana Fallaci, pure per il biotestamento, da molti osannato come talismano garante dell’autonomia del paziente ma in realtà trappola mortale: «E’ una buffonata. Perché nessuno può predire come si comporterà davanti alla morte […] E se nel testamento biologico scrivi che in caso di grave infermità vuoi morire ma al momento di guardare la Morte in faccia cambi idea? Se a quel punto t’accorgi che la vita è bella anche quando è brutta, e piuttosto che rinunciarvi preferisci vivere col tubo infilato nell’ombelico, ma non sei più in grado di dirlo?».

Una laica condanna sugli effetti dell’eutanasia legale la formulò anche un grande medico non credente come Lucien Israël, nel suo bel libro intervista Contro l’eutanasia (Lindau). E potremmo andare avanti all’infinito con le citazioni e gli esempi che dimostrano una cosa alla fine molto semplice: Marco Cappato può ricevere tutta la solidarietà del mondo da certi preti. Potrebbe – oggi, ahinoi, tutto è possibile - persino essere benedetto da qualche vescovo. Ma questo non cambierebbe di una virgola un fatto: l’eutanasia è un gesto malvagio e chiunque cooperi ad esso non potrà mai pretendere di passare per filantropo o, peggio, per martire. Punto. Contra factum non valet argumentum.

 

di Giuliano Guzzo

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