26/09/2019

Sentenza suicidio assistito, Boscia (AMCI): «Inammissibile per la deontologia medica»

Per Filippo Maria Boscia, quella di ieri è stata una «sentenza annunciata». A colloquio con Pro Vita & Famiglia, il presidente dell’Associazione Medici Cattolici Italiani ha commentato la decisione della Corte Costituzionale sul suicidio assistito come «una pronuncia disumana ma soprattutto deviante, che crea un vulnus nell’arte medica» e genera «un momento storico di confusione e incertezza».

 

Professor Boscia, come si pongono i medici cattolici di fronte a questa drammatica svolta giuridica?

«Come medici cattolici, abbiamo il dovere di alzare i toni delle nostre voci. Su questo tema abbiamo ritrovato una grande unità non solo di facciata o formale ma che ha un riscontro in tutto il mondo associativo cattolico che lucidamente condanna non solo l’eutanasia – che non è libertà di scelta – ma anche l’accompagnamento all’eutanasia stessa».

Qual è il suo giudizio etico sulla sentenza della Corte Costituzionale?

«Occorre che non solo i medici ma tutti i cittadini si pongano questo interrogativo: il suicidio è un valore o un disvalore? Se siamo d’accordo che sia un disvalore – e credo che nessuno possa esprimere un giudizio diverso – dobbiamo anche chiederci se vada agevolato o condannato. Stiamo parlando di un atto contrario non solo alla dignità, alla sacralità e all’indisponibilità della vita ma anche agli obblighi sociali. Siamo su un piano scivoloso, perché questa sentenza genera incertezze, conflittualità, malessere, confusione e instrada a un percorso di sottili convincimenti ideologici che portano anche a distrarre le persone dall’affrontare questi problemi.

In sintesi, l’unica opzione che si può esercitare sarà sempre e comunque a favore della vita, perché la professione obbliga il medico a un netto e assoluto rifiuto di discriminare tra vite degne o non degne di essere vissute. Inoltre, chi è che dovrebbe valutare quali siano queste condizioni di dignità? Deve farlo un neurologo o uno psicologo? La Corte specifica che è possibile mettere fine a una vita, “purché il paziente sia pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli”. Io sfido chiunque, Corte compresa, a trovare uno psichiatra che certifichi quando possano esserci delle “decisioni libere e consapevoli”, qualora il paziente si trovi “in condizioni di sofferenza intollerabili”. Trovo difficile che questo avvenga».

Che risposta dovrebbero dare, dunque, i medici pro life?

«La via maestra è quella delle cure palliative. È obbligo dei medici fornire interventi necessari a supporto alla resilienza del paziente. Nessuno ricorda che certe ferite sono certamente dolorose ma, al tempo stesso, possono essere delle “ferite che curano”, attraverso le quali possono trasparire delle “feritoie”, che possono aiutare a dare un senso a questa sofferenza. In questo percorso, i medici non possono sottrarsi dall’obbligo di conformare il servizio sanitario alla legge 38/2010, attraverso un sistema di cure palliative omogenee su tutto il territorio nazionale. Nel caso dell’accompagnamento al suicidio volontario, il medico cattolico non ha alternative: la sua unica opzione possibile è sempre e solo per la vita».

Come si eserciterebbe l’obiezione di coscienza in un quadro giuridico così mutato?

«Siamo in una deriva pro-eutanasica, in cui occorre prevedere che il medico contrario veda tutelato il suo diritto all’obiezione di coscienza. Qualcuno dice che questa obiezione di coscienza non è costituzionalmente fondata: io contesto questo assunto e propongo, viceversa, che all’autodeterminazione del paziente si associ l’autodeterminazione del medico. Si tratta di due autodeterminazioni che devono essere rispettate, una non può prevalere sull’altra. Ove ciò succedesse, potrebbe andare ad offendere i convincimenti profondi del medico. La possibilità di obiezione di coscienza, che è stata tanto discussa per la Legge 194, non può ulteriormente continuare ad essere oscurata per i medici e gli operatori sanitari che sono eventualmente coinvolti nella pratica».

La vostra deontologia professionale può rappresentare un ulteriore freno a questa deriva etica?

«Ovviamente questa sentenza ci esorta a riflettere ulteriormente sull’esercizio della professione medica. Quindi, sull’indipendenza e sulla libertà nella professione e sull’autonomia e responsabilità del medico, quindi sulla natura e gli scopi della medicina che sono codificati da antiche tradizioni e sono statuiti dal codice deontologico. L’esercizio del medico, come recita il nostro codice, è fondato sui principi di libertà, indipendenza, autonomia e responsabilità – che sono principi di deontologia professionale – che ci obbligano a non sottostare ad interventi di condizionamento ideologico. Questo articolo del nostro codice deontologico – che se fosse cancellato farebbe morire la medicina – ci riporta ai valori metastorici della medicina stessa e alla necessità che il medico si dedichi al sollievo della sofferenza sia fisica che psichica, che sia in difesa della dignità, della vita e vada a proporre degli interventi professionali adeguati per la sedazione delle sofferenze e del dolore».

 

di Luca Marcolivio

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