Indi Gregory, nata britannica ma cittadina italiana da una settimana, è morta a otto mesi nella notte del 13 novembre, tra le braccia della madre Claire e sotto gli occhi del padre Dean.
Fin dalla nascita la piccola soffriva di una rara malattia, a detta dei medici inglesi incurabile, e per questo era tenuta in vita da alcuni trattamenti specifici. «Futili e stressanti», li hanno recisamente definiti i dottori che la seguivano, secondo cui non avrebbero mai potuto esserci in futuro speranze di miglioramento. Una diagnosi colta al balzo dai giudici inglesi, che hanno decretato l’esecuzione della bambina, praticamente per soffocamento visto che le è stata tolta la possibilità di respirare.
Nel dettaglio, la piccola è stata trasferita dall’ospedale in cui era ricoverata in un hospice, dove lo è stata staccata la ventilazione vitale, sostituita da una più semplice ossigenazione, in attesa del suo ultimo respiro. Indubbiamente, purtroppo, Indi non sarebbe comunque mai sopravvissuta a lungo. Il suo corpo, infatti, non avrebbe comunque retto la ventilazione automatica se non per massima una ventina di mesi, al netto ovviamente di terapie sperimentali che sarebbe state messe in pratica solo e soltanto se le speranze di miglioramento fossero state realmente concrete.
Speranze di sopravvivenza, dunque, pochissime e non per lungo periodo, ma è altrettanto indubbio che ci sia modo e modo di morire. Sia nel fisico, per chi muore dal lato biologico, sia nell’animo, per chi è vicino a chi muore come possono esserlo un padre, una madre e una sorella.
Non era previsto dunque nessun accanimento terapeutico sulla bambina, come qualcuno ha detto o scritto. I medici del Bambin Gesù sapevano perfettamente, e lo hanno pure dichiarato, che una patologia mitocondriale come quella di Indi ha un decorso inevitabile, su cui, nemmeno provandoci, l’insistenza farmacologica o meccanica può fare effetto. La proposta era quella, invece, di applicare un protocollo di cure palliative per come vengono concepite da noi, in Italia, ovvero in modo corretto, come un insieme di attività atte a rendere il meno doloroso possibile per tutti, compresi coloro che assistono il malato morente, il decorso della malattia terminale. Non tutti i Paese seguono questa idea di cure palliative e tendono a essere più pragmatici ossia meno attenti a intercettare e mitigare la sofferenza complessiva di una situazione come quella di Indi. Volendo assumere una chiave di lettura un po’ più critica, si potrebbe dire che altrove l’approccio è molto più cinico.
Si tratta di un cinismo contagioso, come si è potuto riscontrare facilmente sui vari social network dove si è discusso della vicenda. «Tanto deve morire…» è il concetto più espresso in assoluto, nonché quello che di più e meglio incarna il degrado intellettuale ed etico di un mondo dominato da un dilagante disumanesimo, quell’approccio alla realtà dove sostanzialmente nulla ha più valore, a partire dai gesti e dalle azioni ispirate dall’empatia e che possono farsi senza danno ad alcuno, ma anzi portando sollievo a chi ne ha bisogno. Molte di quelle frasi disumane, per intenderci, erano declinate su concetti tipo: «una persona in meno a consumare le risorse naturali», segni di un fanatismo tanto più pericoloso perché ispirato da una realtà distopica che si nutre di fanatismo e con esso si rafforza.
Dunque forse non è un caso che tutto ciò sia capitato nel Regno Unito, una delle maggiori centrali di diffusione in Europa del disumanesimo contemporaneo, quasi un ponte per far passare nel Vecchio Continente ciò che di più estremo si va sperimentando oltreoceano. Per farsi un’idea di cosa potrebbe arrivare anche da noi, basta documentarsi sulle folli politiche eutanasiche adottate nel corso del tempo dal Canada, altro laboratorio avanzatissimo nella sperimentazione distopica dei nostri giorni.
A peggiorare questo quadro è poi giunta l’invasione della politica con le sue fazioni e delle istituzioni giudiziarie con le loro glaciali coercizioni. Queste ultime, dal lato inglese, hanno dato disposizioni che ben si confanno al tipo di paese che è diventato la Gran Bretagna, negando a Indi un decorso accompagnato e di poter morire a casa propria, e ai suoi genitori ogni tipo di assistenza necessaria in questi casi. Le loro sentenze sono piombate sul capo di tutti con l’empatia di un tratto di penna su un foglio. Peggio ha fatto la politica, stavolta in Italia, dove la necessità e il dovere umano di mitigare al meglio possibile il dolore devastante di un dramma sono diventati strumenti di bieca lotta politica tra i trombettieri del disumanesimo mortifero travestito da progressismo e chi ancora ha un chiaro concetto di cosa sia la misericordia cristiana e di come la si eserciti.
Tanto assordante rumore e tante carte bollate sono intervenuti a complicare e rendere più atroce ciò che avrebbe dovuto essere semplicemente una famiglia stretta attorno a una figlia dal percorso sfortunato e segnato, a loro volta tutti circondati da aiuto e solidarietà da parte di chi era pronto a prestarsi per stare loro vicini.
Questo mancato appuntamento con l’umanità va a unirsi a tanti altri precedenti (qualcuno ricorderà la vicenda di Charlie Gard, nel 2017, ma anche Alfie Evans), ma a differenza di questi ha un valore in più: mostra che l’Italia nel suo complesso ancora non abdica del tutto al dovere di mantenersi umani. Nel ricordo di Indi, questo è un fatto di cui essere fieri.