Assolti. É stata confermata per Mina Welby e Marco Cappato - rispettivamente copresidente e tesoriere dell'Associazione Luca Coscioni – la sentenza di assoluzione per il caso di Davide Trentini, in accoglimento della richiesta dello stesso procuratore generale di Genova. Trentini, affetto da sclerosi multipla a decorso cronico progressivo che lo aveva reso incapace di svolgere ogni attività, nel 2016 si era rivolto alla Luca Coscioni per mettere fine a una sofferenza che purtroppo lo tormentava da un quarto di secolo. Così, grazie all’attivismo di Welby e Cappato, Trentini è stato accompagnato in Svizzera, in una cui clinica è morto nel 2017.
«Ora la legge», è stato il commento a caldo degli imputati dopo la sentenza. Un commento che, oggettivamente, lascia abbastanza stupiti dato che, se per casi come quello di dj Fabo – o di Davide Trentini, appunto – l’accompagnamento alla morte non è stato punito, significa evidentemente che un vuoto normativo non c’è, nel nostro Paese. Diversamente ora la signora Welby e Cappato sarebbero dietro le sbarre. Ciò nonostante, il mondo radicale appare deciso – forse galvanizzato dalla svolta eutanasica, a marzo, della legislazione spagnola e del dibattito apertosi in Francia sul tema – a rilanciare con forza la battaglia per la «dolce morte».
É infatti dei giorni scorsi la notizia del deposito in Cassazione del quesito referendario per depenalizzare l’eutanasia che sarà promosso in estate con una raccolta firme, ha spiegato Filomena Gallo, leader dell’Associazione Luca Coscioni, per chiedere l’abrogazione dell’articolo 579 del codice penale, che persegue l’omicidio del consenziente. E in Parlamento? Anche lì purtroppo qualcosa di muove. Infatti, avvisava Il Foglio la settimana scorsa, la sinistra è al lavoro per una proposta di legge sul suicidio assistito. Si tratta di un provvedimento targato Pd, M5s e Leu che, nelle intenzioni dei proponenti, andrà a colmare il «vuoto legislativo» così come tracciato dalla Corte Costituzionale.
In effetti, prima con l’ordinanza 207 del 24 ottobre 2018 e dopo con la sentenza 242 del 22 novembre 2019 – con cui si è esortato il Parlamento a legiferare sul fine vita, sancendo poi l’incostituzionalità dell’articolo 580 del codice penale sulla punibilità del suicidio assistito - la Consulta le sue pressioni le ha fatte. E proprio in risposta ad esse, Pd, M5s e Leu hanno pensato bene di dare il loro contributo con un testo che dovrebbe muoversi entro il perimetro indicato dalla Consulta, avente quattro requisiti: potrà chiedere l’aiuto al suicidio chi sia affetto da patologia irreversibile, vittima di sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili, beneficiario di trattamenti di sostegno vitale e capace di intendere e volere.
Inoltre, la proposta non configurerà «un diritto, ma solo una facoltà». Apparentemente di lana caprina, tale distinzione significa che non dovrà essere il Servizio sanitario nazionale ad assecondare gli aspiranti suicidi. Sarà invece un comitato etico attivo in ogni struttura che dovrà verificare l’esistenza dei requisiti individuati dalla Corte per chi volesse farla finita; dopodiché l’atto di morte potrà aver luogo ma senza, pare di capire, un necessario coinvolgimento di personale medico in forze alla sanità nazionale. Il suicidio assistito non verrà insomma introdotto come prassi, ma è evidente che le conseguenze sarebbero comunque esiziali.
Non c’è infatti Paese al mondo, come i pro life sanno bene, che abbia legiferato permissivamente sul fine vita senza poi assistere ad un aumento esponenziale dei casi di morti on demand, a riprova della degenerazione sanitaria e culturale che in un Paese può veicolare una legislazione necrofila. Ecco che allora, tornando a noi, l’assoluzione di Mina Welby e Marco Cappato – se pure, lo si ripete, prova esattamente il contrario di quanto affermano i sostenitori della «dolce morte», e cioè la non necessità di alcuna legge -, rischia di trasformarsi in un formidabile trampolino politico e comunicativo per una legge sul fine vita e, per la precisione, sul suicidio assistito.
Tutto ciò, in un Paese già flagellato dall’emergenza sanitaria, dove il problema non è rifiutare le cure ma – per tantissimi italiani – riuscire prima ad averle, ha il sapore di un amarissimo paradosso. Che deve essere contrastato con forza e decisione, prima che sia troppo tardi.