Ci arriviamo tutti – si spera - a comprendere che il suicidio è un atto estremo e obbiettivamente negativo, che è un atto in cui si fa del male contro il proprio corpo al fine di uccidersi e finché tale obbiettivo non venga raggiunto. Il nostro più che massimo rispetto e la nostra comprensione verso chi, con tanta sofferenza, arriva a tanto non cambia la gravissima natura dell’atto in sé.
Ed è proprio nel profondo rispetto di questa sofferenza che sottolineiamo l’innaturalità del gesto estremo di togliersi la vita, il quale, seppur ricercato nella disperazione come atto liberatorio, mai corrisponde al bene dell’uomo e mai conduce alla desiderata libertà; anzi, si rivela essere proprio lo specchio in cui più nitida si manifesta la totale assenza di quest’ultima.
Come abbiamo detto in altre occasioni, infatti, la “libertà del suicidio” è il suicidio della libertà. Se di fronte alla sofferenza umana la risposta di uno Stato o quella della società è la “libertà” di farsi fuori, sarà veramente libero un depresso di scegliere questa opzione letale o forse si sentirà particolarmente incoraggiato (quasi spinto) a sceglierla, dal momento che nessuno lotta per la sua vita e che questa è trattata come un peso inutile?
Su Life Site News, possiamo leggere la tragica storia di Shawn Shatto, trovata morta da sua madre sul pavimento della sua camera da letto. Sul suo cellulare sono stati trovati i messaggi che la giovane si era scambiata con altre persone su un sito che dava indicazioni per suicidarsi. Le consigliavano quali droghe mescolare e le auguravano un “buon viaggio”.
Così, una ragazza che ha cercato aiuto per suicidarsi, anziché venir dissuasa ha ricevuto solo indicazioni su come farsi fuori. E questa, dunque, sarebbe libertà? Ci rendiamo conto di quanto sia grave l’istigazione al suicidio? Perché di questo si tratta: di una spintarella verso un baratro. E questo tutto è tranne che compassione.