L’uomo era un malato terminale, ricoverato presso il Reparto Medicina dell’Ospedale Santa Maria Goretti di Latina. Date le ormai gravi condizioni in cui verteva, era stato concesso alla figlia, che ne aveva fatto richiesta, di assisterlo.
«In seguito, la situazione che fa sospettare l’eutanasia: la donna, che assisteva il padre morente, è stata trovata da un’infermiera con una siringa in mano. La donna, una dottoressa che lavora in una struttura convenzionata della provincia di Latina, non poteva chiaramente decidere di somministrare alcunché al padre che in quel momento era un paziente non di sua competenza. […] Aperta un’inchiesta dalla Procura di Latina, la dottoressa è stata posta in stato di fermo». L’autopsia rivelerà le cause del decesso.
In ogni caso, un’eutanasia praticata in Italia non dovrebbe destare scalpore solo perché questa pratica è ancora illegale, ma soprattutto perché il fatto che una persona avrebbe posto fine alla vita di un'altra: il fatto più grave che possa accadere. Perché legale o illegale che sia, di questo si tratta; ma, certo, la legalizzazione porterebbe a un aumento smisurato di simili episodi.
Ci rendiamo conto della possibile quantità di abusi che potrebbero verificarsi, così come sta avvenendo nei Paesi in cui questa pratica è legale? Sarebbe molto più facile provocare la morte delle persone che non possono più esprimersi. O quanti potrebbero essere indotti al suicidio e venire immediatamente assecondati, senza troppi problemi? Quanti casi di omicidio potrebbero verificarsi, proprio come accadde per Alfie, Charlie, Isaiah o Vincent.
«Eliminiamo la sofferenza, non il sofferente», dicevamo nella nostra ultima campagna contro la legalizzazione dell’eutanasia. Perché la sofferenza si può combattere con le cure, l’assistenza ed il calore affettivo. Perché nessun malato deve sentirsi un peso al punto tale da voler togliere il disturbo. Chi soffre merita che si lotti concretamente per la sua vita.