Non sono passati molti giorni da quando la Corte Costituzionale ha dichiarato che non in tutti i casi l’aiuto al suicidio è punibile. Un articolo di Tempi ci dà modo di avere un’idea di cosa rischia l’Italia dopo questa decisione.
Nel 2015, in Canada l’aiuto al suicidio è stato depenalizzato dalla Corte Suprema. Così, nel 2016, il Parlamento ha legiferato a riguardo, consentendo tale pratica a maggiorenni in grado di intendere e di volere, con malattie dalle insopportabili sofferenze e per cui «la morte naturale è ragionevolmente prevedibile».
Già su questa condizione ci sarebbe da riflettere a fondo e porsi alcune domande. La soluzione alle “insopportabili sofferenze” è la morte o, piuttosto, una cura per alleviarle? Perché non viene proposta quest’ultima?
Una persona che sta attraversando “insopportabili sofferenze”, essendo comprensibilmente molto vulnerabile a causa di esse, può considerarsi totalmente capace di intendere e volere, nel momento in cui chiede di farla finita una volta per tutte? E nel caso in cui fosse già in prossimità della morte, perché non essere al suo fianco fino all’ultimo istante e, invece, affrettarne la fine?
Bene, come possiamo immaginare, non è finita qui. Dopo soli tre mesi, il Québec ha esteso le condizioni di possibilità dell’eutanasia, dichiarando incostituzionale la legge in vigore, in quanto “troppo restrittiva”.
È stato, così, possibile che Alan, 61 anni, depresso, potesse accedere all’eutanasia. Era solo depresso. Aveva un fratello e dei familiari che si prendevano cura di lui e andavano a trovarlo spesso e talvolta attraversava periodi migliori. Nell’ultimo periodo, però, si chiuse in sé stesso, cominciò a smettere di mangiare e, così, i parenti lo portarono all’ospedale dove fu ricoverato per malnutrizione.
Lì, Alan, senza che nessuno lo sapesse, fece richiesta di morire. L’ospedale avvertì i parenti solo quattro giorni prima. Loro avrebbero fatto qualsiasi cosa per salvarlo, ma avevano le mani legate. Alan poteva scegliere di morire, pur non essendo in grado di intendere e di volere. «Non potete fare niente per fermarlo. La decisione spetta solo ad Alan», dicevano i medici. Ed Alan fu servito.
Grande, la disperazione del fratello: «Abbiamo passato 50 anni ad aiutare Alan a vivere e in un mese hanno firmato la sua condanna a morte. Com’è possibile che tutto questo avvenga in così poco tempo? Dov’è la legge che dovrebbe difenderci?».
«Il terribile caso di Alan Nichols, che ricalca (con qualche differenza) quello di Godelieva De Troyer in Belgio o di Noa Pothoven in Olanda, dimostra che nessun paletto o legge può fermare l’eutanasia dal compiere il suo decorso fino ad arrivare ad affermare il diritto universale a farsi uccidere dallo Stato a qualunque condizione», conclude, giustamente, Tempi.
Ed è questo uno dei terribili rischi che corre l’Italia, se si continua a spianare la strada alla cultura della morte.
di Luca Scalise