Luca Russo scrive su In Terris una testimonianza forte e splendida contro la cultura dello scarto e la mentalità eutansaica che dilaga. La riportiamo qui integralmente, perché non abbiamo il coraggio di toccare neanche una virgola.
«Giuseppe aveva solo 12 anni quando ha chiuso gli occhi, giusto il tempo di un bacetto veloce, e poi ha lasciato questa terra. Giuseppe, ma per noi tutti Giuseppino. 12 anni di onorata carriera con un curriculum di tutto rilievo. Si direbbe un “alto profilo”. 4 anni di ospedalizzazione a motivo di una malattia rognosa con idrocefalo e poi, abbandono familiare perché troppo malato per essere figlio, e poi corse in ambulanza, un susseguirsi di ricoveri d’urgenza e valutazioni programmate, day hospital e fisioterapia a manetta. Divideva la giornata tra carrozzina e letto con materasso ad aria antidecubito, alimentazione artificiale, e poi con il tempo e la degenerazione della sua malattia è arrivata la tracheostomia, la respirazione assistita e bomboloni d’ossigeno disseminati un po’ in tutte le stanze di casa con una strategica disposizione, frutto di un delicato e complesso lavoro d’intelligence familiare. Insomma Giuseppe era uno dei candidati più favoriti all’eutanasia, i sondaggi lo davano tra i migliori.
Se non fosse stato per un piccolo dettaglio: Giuseppe era per noi Giuseppino, perché ci era divenuto figlio. Abbiamo spostato un paio di armadi ed un letto per fargli spazio nella nostra famiglia, sopraffatti dal desiderio di vivere con passione la sua stessa passione. Aveva già 4 anni e quanto avremmo desiderato arrivare prima! Ha riempito una stanza vuota, ha inzuppato le nostre vite nella sua. Certo la sua relazione clinica vantava pagine e pagine di scienza medica e ricerca scientifica, non si può dire che non incutesse un po’ di paura, ma Giuseppino era un figlio e che vuoi fare, ogne scarrafone ‘è bell ‘a mamm ‘suje. Ogni figlio è perfetto, di lui non avremmo voluto spostare neanche un neo.
Oggi ricorre il suo anniversario di morte e riaffiorano inevitabilmente i ricordi di una vita estrema vissuta ai massimi livelli: il primo bagno al mare, i vestiti di carnevale, il quaderno della scuola materna con le foglie secche e le foto di classe; i bacini, milioni, sui piedini e sulle guance liscissime, gli altri fratellini che a Natale erano stati bardati dagli infermieri del Bambin Gesù con camici, guanti, cuffietta per i capelli e copriscarpe per trasgredire la regola della terapia intensiva che vietava loro di entrare e portargli il regalo di Natale sul lettino della Rianimazione. E poi i selfie, i video e le canzoncine dello Zecchino d’Oro. Che vita meravigliosa!
Nei giorni in cui torna alla ribalta il tema dell’eutanasia legale, con lo slogan ammaliante “liberi fino alla fine”, mi preme sfoggiare la mia autorevolezza di padre dell’umana debolezza. Chi accoglie un figlio malato, infatti, è padre di tutta l’umanità fragile.
Non esiste una vita talmente libera da tenere a distanza l’umana sofferenza. La fragilità ci appartiene, ci identifica, è nel genoma dell’essere umano. Libertà e sofferenza non si sfidano, ma vanno a braccetto. Non esiste uno scontro tra liberi e sofferenti, ma esiste un’opportunità di coniugare la nostra libertà con l’umana sofferenza. Non saremo mai “più liberi” scegliendo di morire, ma possiamo essere veramente liberi solo se scegliamo di vivere, pur dovendo avere a che fare con il dolore.
La sofferenza non piace a nessuno, è chiaro, ma non è un tempo vuoto della vita umana. Non ne giustifica la fine. Il corpo dell’uomo non diventa muto nel momento in cui incontra il dolore, anzi ha ancora molto da raccontare a chi lo ascolta. Di più. Nella debolezza si svelano orizzonti sconosciuti, s’imparano alfabeti nuovi, si ritrovano gioie gigantesche in dettagli infinitamente piccoli della propria esistenza. Perché spegnerla? Certo, è un linguaggio diverso della vita a cui siamo abituati, un passo più lento e sommesso. Giuseppe era un emerito sconosciuto ed è andato via senza fare tanto clamore, se qualcuno avesse spento la sua vita, chi se ne sarebbe accorto? Non era un personaggio di tendenza, né uno Youtuber di successo. Giuseppino non aveva la forza di alzare la mano e spostava il braccio solo se glielo spostavo io. Se avessero fatto l’appello l’avrebbero dato per assente, perché non avrebbe potuto alzare il dito o dire “ci sono!”.
Ma questa vita, anche se silenziosa non è mai stata inutile. L’eutanasia non l’avrebbe reso più libero né più felice. Siamo davvero liberi quando scegliamo di accettare fino in fondo quanto la vita ci riserva, anche la malattia. Siamo liberi con un Sì, alla vita e a quanto comporta.
Giuseppe era per noi Giuseppino, perché ci era figlio e i figli non si uccidono, possiamo solo metterli sulle spalle e fare insieme a loro un pezzo di strada, a tratti faticosa. Un figlio lo porti in braccio, ancor più quando è ferito. E stai a tu per tu con l’umano dolore, terreno sacro. All’Accademia della Fragilità si apprende un alfabeto nuovo, solo così posso oggi dire che la sua vita è stata perfetta, una vita meravigliosa!».
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