Che senso ha plaudire alle forze dell’ordine che salvano la vita agli aspiranti suicidi, se poi si ritengono legittimi il suicidio assistito e l’eutanasia? A domandarselo è la 44enne scrittrice genovese Susanna Bo, la cui fama è legata soprattutto al romanzo autobiografico La buona battaglia. Le grandi acque non possono spegnare l’amore (San Paolo, 2016), in cui racconta del suo primo matrimonio e del suo primo marito Luigi, affetto da una gravissima malattia, che lo ha portato alla morte nel 2008. L’esperienza vissuta da questi due coniugi è una potentissima testimonianza contro tutti gli inganni della “dolce morte”.
Susanna Bo sarà tra i relatori della tavola rotonda online sul tema Eutanasia e suicidio assistito: alleviare o sopprimere? Restiamo umani!, in programma martedì 9 novembre, alle ore 21, sulla pagina Facebook e sul canale YouTube di Pro Vita & Famiglia, che promuove l’evento. Al webinar, moderato dal vicepresidente di Pro Vita & Famiglia, Jacopo Coghe, prenderanno parte anche Massimo Gandolfini, leader del Family Day, e Filippo Vari, professore ordinario di Diritto Costituzionale all’Università Europea di Roma e vicepresidente del Centro Studi “Rosario Livatino”. A Pro Vita & Famiglia, Susanna Bo ha anticipato qualche contenuto del webinar e ha espresso il suo punto di vista sui temi del fine vita, proprio quando alla Camera è in discussione un progetto di legge sul suicidio assistito, tema su cui i Radicali hanno proposto un referendum abrogativo.
Susanna Bo, al webinar di martedì prossimo parlerà della sua esperienza personale riportata nel suo libro autobiografico?
«Credo che il motivo per cui sono stata invitata sia proprio nella mia vicenda personale, che narro ne La buona battaglia. Durante la sua lunga malattia, mio marito Luigi si è dovuto confrontare di continuo con la morte, con il dolore e con la sofferenza e, in tanti momenti, ha pensato che l’eutanasia fosse la soluzione migliore per lui. Alla fine, però, ha portato avanti la sua “buona battaglia”, non si è arreso e questa sua determinazione è la cosa che rimane più profondamente impressa in me ancora oggi, a tredici anni dalla sua morte».
In che circostanza, suo marito le confidò il suo desiderio di morire?
«Eravamo sposati da appena due mesi, e lui mi disse: “guarda, ho pensato che stavolta mi butto dalla finestra sul serio”. Luigi era affetto da un meningioma al cervello che, di per sé, sarebbe anche un tumore curabile ma, nel suo caso, si era ripresentato varie volte e ogni volta lui si è dovuto operare. Al momento della morte, all’età di 33 anni, Luigi aveva subito ben dodici interventi. Pertanto, quando un paio di mesi dopo il nostro matrimonio, ricevette la diagnosi della risonanza magnetica, che pareva non dargli speranze, lui fu preso dallo sconforto. Io gli risposi che, nei suoi panni, avrei pensato la stessa cosa ma gli dissi anche: “Ora però sei sposato, un domani potresti avere anche dei figli. Se ti butti dalla finestra, quei figli non nasceranno mai”. Glielo dissi pensando che quei figli non sarebbero mai arrivati. Lui, poi, ha desistito dai propositi suicidi e negli anni successivi sono nate le nostre due figlie».
Alla luce della sua esperienza, cosa direbbe oggi a chi vorrebbe mettere fine alla sua vita?
«Nel mio caso specifico, si potrebbe obiettare che mio marito, evidentemente, non aveva una qualità della vita così orribile, visto che è riuscito concepire due figli. Tuttavia, un uomo di nemmeno trent’anni che si trova di fronte alla prospettiva di una malattia che non lo farà invecchiare e che gli impedirà di crescere i suoi figli, si può comprendere facilmente la sua disperazione. La parola chiave, quindi, è combattere. Vale sempre la pena combattere, inoltre un malato terminale o un disabile possono sempre amare. Non è una questione di fede. Penso alla beata Chiara Badano (1971-1990), che, arrivata alla fine della sua vita, diceva: “ormai non possiedo più niente ma ho un cuore, con quello posso amare sempre”. Quella parte di società che vorrebbe l’eutanasia legale esclude completamente che una persona in certe condizioni possa essere amata e possa amare. In questo, Luigi è stato un esempio per tantissime persone, anche alla fine della sua malattia, quando non era più nemmeno l’ombra dell’uomo che avevo sposato. Negli ultimi tempi, lui si arrabbiava terribilmente quando sentiva parlare di eutanasia. Se porto avanti questa testimonianza, lo debbo principalmente a Luigi: non ho la competenza tecnica per parlare di certi argomenti ma in lui ho l’esempio vivente che vale davvero la pena non arrendersi mai».
Cosa pensa del dibattito attuale su eutanasia e suicidio assistito e sul relativo referendum dei Radicali?
«Mi sembra un dibattito che rischia di polarizzarsi troppo. Da una parte c’è la posizione dei Radicali, secondo i quali un uomo deve avere il diritto a morire con dignità. Tralasciano, però, un piccolo particolare: in Italia già esistono le cure palliative e il malato terminale o la persona non autosufficiente sono comunque nelle condizioni di poter essere assistiti e curati anche a livello domiciliare. Può darsi che le cure palliative non siano considerate, perché ritenute troppo costose, quindi, di conseguenza, l’eutanasia è percepita come la soluzione più logica. Eppure, posso testimoniare che nei reparti dove vengono somministrate le cure palliative, il paziente viene accompagnato e trattato con tutta la dignità possibile. Quando mio marito è entrato in un reparto di cure palliative, non ha subito né accanimento terapeutico né diagnostico ma è stato veramente accompagnato. Quel tempo in più che ha avuto in alternativa a farsi siringare qualcosa di letale, ha dato modo a lui, a noi e ai nostri amici di salutarsi davvero. Un conto è essere accompagnato alla morte che non puoi evitare, un conto è venire spinti alla morte stessa. Com’è possibile approvare l’eutanasia legale e, al tempo stesso, plaudire al carabiniere che salva chi vuole buttarsi giù da un ponte? Seguendo il principio della libertà di morire, se vedo uno che vuol buttarsi da un terrazzo, dovrei spingerlo: in linea di principio è la stessa cosa. C’è il rischio che questa enfasi sulla libertà di decidere, offuschi l’importante discorso sulle cure palliative. Spesso si dice che “bisogna lasciar fare la natura”: perché non farlo anche quando si tratta di morire?».